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Visite domiciliari covid

Sanità: Visite domiciliari dei medici di medicina generale ai pazienti Covid (CdS 8164/2020)

Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 8166/2020 del 18.12.2020

Il Consiglio di Stato si è pronunciato sul dovere di visite domiciliari dei medici di medicina generale ai pazienti COVID accogliendo il ricorso proposto avverso la sentenza del T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III, n. 11991/2020, concernente l’annullamento dell’Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020 (Proposta n. 3999 del 16.3.2020), recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica», in BUR Lazio n. 27, Suppl. n. 3 del 17.3.2020.

Il Fatto

La questione fa riferimento al dovere di assistenza domiciliare dei medici di medicina generale ai pazienti affetti dal virus Covid-19 stabilito prima con il D.L. n. 14/2020 (all’art. 8) e in seguito con il D.L. n. 18/2020 (all’art. 4-bis)[1] , unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (c.d. USCA) istituite dal Legislatore nazionale d’urgenza proprio per lo scopo. Innanzi al giudice di primo grado era stato sottolineato come tale disposizione fosse di distrazione, per i medici interessati, dal compito primario di prestare assistenza ordinaria, diminuendo la concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid.

Il T.A.R. Lazio ha quindi accolto il ricorso e annullato in parte qua gli atti impugnati, ritenendo fondata la tesi dei ricorrenti statuendo che “Nel prevedere che le Regioni “istituiscono” una unità speciale “per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”, la citata disposizione rende illegittima l’attribuzione di tale compito ai MMG, che invece dovrebbero occuparsi soltanto dell’assistenza domiciliare ordinaria (non Covid)”.

La pronuncia del Consiglio di Stato

La Regione Lazio ha quindi impugnato la decisione del giudice di prime cure sottolineando come gli atti adottati in materia di visite domiciliari ai pazienti Covid da parte dei medici di medicina generale fossero legittime anche in virtù della situazione straordinaria legata alla pandemia in corso. Il Consiglio di Stato ha così deciso sulla questione accogliendo l’appello proposto. Le motivazioni addotte sono diverse e articolate.

In primo luogo, il C.d.S. analizza e non condivide i postulati alla base del ricorso e della sentenza di primo grado anche in riferimento al fatto che le visite domiciliari ai pazienti Covid costituiscono un’importante tassello per ridurne la diffusione. Nella specie:

1) la prima tesi sostenuta fondava le proprie ragioni sul fatto che l’esplosione di un evento pandemico e le relative conseguenze sulla salute degli individui, in quanto evento straordinario e non previsto, immuti implicitamente i concetti di malattia acuta e cronica sui quali basano i LEA e i connessi accessi domiciliari nell’ambito della medicina generale. Sul punto il giudice di appello non condivide quanto postulato ed evidenzia come “la tesi secondo la quale l’influenza da Covid 19 non sarebbe una patologia acuta sussumibile nel disposto (D.P.C.M. 12.1.2017 art. 4 c.1) […], si risolve in una mera illazione, posto che la patologia acuta è proprio il processo morboso funzionale o organico a rapida evoluzione, cui tipicamente è riconducibile quello conseguente a virus influenzale”[2] e “non c’è dubbio che se il legislatore non fosse affatto intervenuto, nessuno avrebbe dubitato che i medici di medicina generale, in forza del D.P.C.M. 12.1.2017 e dell’accordo collettivo che ne dà attuazione sul versante della medicina generale, avrebbero avuto l’obbligo di effettuare accessi domiciliari ove richiesto e ritenuto necessario in scienza e coscienza, a prescindere dalla sussistenza in atto di una patologia infettiva, e nel rispetto ovviamente dei protocolli di prevenzione e tutela”.

2) il secondo postulato fondava sul fatto che l’evento pandemico “produc(esse) una sorta di tabula rasa organizzativa in ambito sanitario” e quindi che le conseguenti disposizioni legislative emergenziali adottate per affrontare efficacemente l’evento“costituis(sero), anche in assenza di esplicite indicazioni in tal senso, strumento esaustivo ed esclusivo, capace di sostituirsi integralmente all’assetto ordinario delle competenze, attraverso non il meccanismo della deroga puntuale ma quello, appunto, dell’azzeramento del pregresso”. Secondo il Giudice di appello, però, anche tale assunto non è fondato atteso che “Le norme emergenziali, anche di carattere organizzativo, sono sempre norme speciali e derogatorie che si innestano in un contesto noto e presupposto dal legislatore, in modo da modellare l’assetto organizzativo ordinario e renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare l’emergenza. E’ chiaro, dal punto di vista della tecnica legislativa, che per raggiungere tale finalità non occorre confermare espressamente l’ultravigenza di tutte le norme organizzative ordinarie pregresse, vigendo il generale criterio esegetico secondo il quale continua ad applicarsi ciò che non è espressamente derogato dalla norma emergenziale; così come è chiaro […] che un legislatore che voglia affrontare […] una situazione emergenziale, non potrebbe giammai privarsi di un modello organizzativo già funzionante e testato, in favore di un modello interamente nuovo e sostitutivo […]. Il principio della tabula rasa dell’organizzazione pregressa costituirebbe, in situazione emergenziale, un salto nel vuoto”.

Inoltre, “appare chiaro che il senso della disposizione emergenziale in commento (dell’art. 4-bis D.L. n. 18/2020)[3] sia quello di alleggerire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici di continuità assistenziale, dal “carico” derivante dall’esplosione pandemica, affiancando loro una struttura capace di intervenire a domicilio del paziente, a richiesta dei primi, ove questi, […] non possano recarsi al domicilio del paziente, o ritengano, in scienza e coscienza, nell’ambito della propria autonoma e libera valutazione medica, che sia necessaria o preferibile l’intervento della struttura di supporto”. Pertanto “Trarre dalle disposizioni in commento, un vero e proprio divieto per i medici di medicina generale di recarsi a domicilio per assistere i propri pazienti alle prese con il virus […] costituirebbe […] un grave errore esegetico, suscettibile di depotenziare la risposta del sistema sanitario alla pandemia e di provocare ulteriore e intollerabile disagio ai pazienti, che già affetti da patologie croniche si vedrebbero […], una volta colpiti dal virus, proiettati in una dimensione di incertezza e paura, e finanche abbandonati dal medico che li ha sempre seguiti”.

Le conclusioni

Il Consiglio di Stato continua poi pronunciandosi sul rischio (evidenziato nel giudizio di primo grado) di una ulteriore possibile veicolazione del virus legata all’accesso domiciliare del medico di medicina generale. Il C.d.S. definisce tale rischio quale “subvalente” rispetto all’effettivo contributo che le figure mediche (medici di medicina generale e altri) danno nella lotta alla diffusione del virus COVID-19 anche attraverso le visite domiciliari. Ciò è coadiuvato dall’accordo stipulato dalle associazioni maggiormente rappresentative e “che va oltre la visita domiciliare (per la quale, com’anzi detto non c’era certo bisogno di nuovi accordi) e consente ai medici, in relazione alla grave situazione emergenziale […] l’accesso domiciliare per l’effettuazione di tamponi antigenici rapidi o di altro test di sovrapponibile capacità diagnostica[4].

Il Giudice conclude pronunciandosi definitivamente sulla questione delle visite domiciliari presso i pazienti Covid evidenziando che “L’accordo sottende e formalizza un principio che ad avviso del Collegio era già ricavabile in precedenza dall’ordinamento: quello secondo il quale il medico di medicina generale (e le altre figure mediche operanti sul territorio), in scienza e coscienza ordinariamente valutano e, se necessario, effettuano, l’accesso domiciliare anche per i malati covid, nel rispetto dei protocolli di sicurezza, fruendo, ove necessario o opportuno, anche in considerazione dell’eventuale insufficienza o inidoneità dei dispositivi di protezione disponibili, del supporto dei medici e del personale dell’USCAR”.

[1] Il Decreto Legge in questione è stato poi convertito in Legge n. 27/2020.

[2] Il D.P.C.M. 12.1.2017 recante “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”. prevede all’art. 4, c. 1 che “nell’ambito dell’assistenza sanitaria di base, il Servizio sanitario nazionale garantisce, attraverso i propri servizi ed attraverso i medici ed i pediatri convenzionati, la gestione ambulatoriale e domiciliare delle patologie acute e croniche secondo la migliore pratica ed in accordo con il malato, inclusi gli interventi e le azioni di promozione e di tutela globale della salute

[3] Il quale prevede che “… L’unità speciale è costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell’unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all’ordine di competenza”.

[4] L’accordo prevede che “L’attività è erogata nel rispetto delle indicazioni di sicurezza e di tutela degli operatori e dei pazienti, definite dagli organi di sanità pubblica” e che “In assenza dei necessari Dispositivi di Protezione Individuale (mascherine, visiere e camici), forniti ai sensi del precedente comma 5 per l’effettuazione dei tamponi antigenici rapidi, il medico non è tenuto ai compiti del presente articolo e il conseguente rifiuto non corrisponde ad omissione, né è motivo per l’attivazione di procedura di contestazione disciplinare”.

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